venerdì 1 aprile 2011

Cesare Segre “Pittura, linguaggio e tempo” Università degli Studi di Parma, 2006

Cesare Segre, nel suo “Pittura, linguaggio e tempo”, Università degli Studi di Parma, 2006, partendo dall’assunto che nelle opere d’arte viene spesso esposta una vicenda che si potrebbe anche raccontare verbalmente,  opera tra l’ambito del verbale e l’ambito del visivo  una equivalenza, che ha come obiettivo dichiarato l’ideale di una “omologazione dei discorsi visivi e verbali”, anche se egli si avvede che c’è da superare il periglioso scoglio relativo al fatto che non tutte le arti presentano il medesimo portato informativo:  la musica non “fornisce nessuna informazione, salvo che su se stessa”. E anche la pittura astratta si trova nelle medesime condizioni. Egli vuole comunque  considerare anche le “codificazioni parziali come gli stili, gli ordini” e le “tradizioni figurative e rappresentative” elementi comunicativi, affermando che “queste configurazioni non sono linguaggi in senso proprio, ma codificazioni dei materiali e di situazioni rappresentabili che puntano verso l’informazione, perciò verso il linguaggio” senza prendere in considerazione che tutti i tentativi di definire, ad esempio, la musica e l’architettura come assimilabili al linguaggio hanno collezionato esiti deludenti o fallimentari. Segre, di fronte alla difficoltà di descrivere verbalmente, in un tentativo di codifica elementi quali: luce, tenebre, colore, corpo, figura, sito moto e quiete, pensa che sarebbero meglio identificati dalla bravura di un Longhi, dimenticando che gli elementi formali non sono né univocamente definibili, né definibili astoricamente, e ancor meno estraibili in maniera oggettiva da un’opera per essere considerati uguali in un’altra.

Inoltre, la più eccelsa descrizione di Cesare Longhi potrà mai essere per noi equivalente alla contemplazione diretta dell’opera, mentre l’interesse di tali descrizioni risiede, invece, nell’interpretazione dell’opera che per definizione non è mai esaustiva o definitiva e nel valore letterario della stessa, oltre che nell’analisi di tutte le componenti - da quelle storiche a quelle psicologiche, da quelle formali a quelle simboliche, oltreché storiche - che migliorano in maniera irrinunciabile la nostra capacità di comprendere culturalmente il fenomeno artistico, ma, appunto, non lo esauriscono. Se Longhi ha parlato di “equivalenze verbali”, non vi è dubbio che lo ha fatto tenendo ben presente l’intraducibilità di una forma all’altra.

Anche le numerosissime metafore che Segre indica a riprova di una supposta sostanziale coincidenza tra arti e linguaggio, non sono altro che attestazioni del concetto contrario, e cioè che la metafora viene usata proprio quando siffatta coincidenza o trasparente traducibilità non c’è.  Il fatto che si usi una metafora tra due campi distanti non vuol dire che essi per il solo fatto di essere avvicinati linguisticamente condividano la medesima origine o abbiano la medesima sostanza. Segre ci pare voler ridurre l’arte alla sola componente iconologica e giustifica la sua presa di posizione col fatto che gli aspetti informativi per l’interpretazione sono altrettanto importanti di quelli formali. Eppure, non sembra necessaria la difesa della lettura iconologica poiché nessuno  osa mettere in discussione i fondamentali apporti di tale scuola,  i quali tuttavia non sono da considerarsi sufficienti per esaurire la complessità del fenomeno artistico. Come già rilevava il Riegl, i problemi iconologici cominciano col passaggio dal “che cosa” al “come”. L’enigmaticità dell’arte non si risolve col ridurla a una sola delle sue componenti (i significati provenienti da sistemi filosofici, letterari, simbolici, storici): essa appare, anzi, più evidente proprio nei tentativi di traduzione in altra forma.

Ancora, Segre nega la differenza che Lessing aveva istituito tra letteratura che si svolgerebbe nella temporalità e pittura che si esplicherebbe nella spazialità solo per abbattere la divaricazione tra visivo e verbale, anziché per divellere, come io credo sia necessario, categorie che non reggono ad analisi approfondite né alla varietà dei casi e che, se nascono come griglie d’inquadramento dei fenomeni, non devono essere però assunte come dogmi, come precetti che blocchino in una morsa proprio la ricchezza interpretativa a cui le opere d’arte possono dar luogo. E’ innegabile che soltanto il discorso verbale dispieghi la ricchezza quasi inesauribile del messaggio, e che nelle arti figurative“ il discorso del critico va incontro al non verbale e al non lineare”, ma dissolvere il fatto artistico nel discorso verbale, mostra solo ciò che il linguaggio può fare (non quello che può fare l’opera d’arte).  
                                                                                                                Rosa Pierno

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