lunedì 13 giugno 2011

Gabriella Drudi “18 dipinti e un acquatinta. Toti Scialoja” 1991

Una sorta di tabula rasa è invocata da Gabriella Drudi, mentre si accinge a parlare delle opere del marito, Toti Scialoja, nel catalogo “18 dipinti e un acquatinta. Toti Scialoja” 1991, Pordenone, quasi a lasciarsi alle spalle la frequentazione costante che gliele ha rese troppo familiari. Azzerare per porsi dinanzi alle opere come per la prima volta. Quel “che cosa resta da dire”,“che cosa ho di fronte, una tela, dei colori, ovvero una presenza secondo la quale vedo e mi vedo?”. La scelta delle domande è naturalmente significativa. Poiché è di tutta evidenza che a partire dall’oggetto d’arte si cerca di traghettare verso l’io. Irrinunciabile presenza dell’io, da cui ripartire sempre, a cui giungere tramite l’arte: “Siamo sempre pronti a dare un volto prima ancora di vedere, un senso prima del disvelarsi delle cose nell’incontro, umano inganno avere in mano il bandolo. Come nell’atto creativo, nell’accoglienza dell’opera d’arte l’inizio è smarrimento: andare verso”. Ed è un andare verso per accogliere il vero dell’arte. “Vero che? Il visibile”. “Questa pittura richiede allo sguardo un inseguimento scomposto e ricomposto, con pause, intervalli – più: un incessante mutare di rotta, corsa, stasi, ripresa, abbaglio, buio, incandescenza. Irretito nella mischia cromatica lo sguardo oscilla, trasale, raduna lontananze e presenze incombenti, precipita assieme alla figura innescata dal pennello nero e soccombe sotto una velatura di dripping, risale in un lancio di rosso cadmio, bruscamente in arresto, o teneramente condotto nel tenue impallidirsi di una velatura”. Sarà allora il visibile ad apparire ignoto, ad apparire opaco a separarci dall’esistenza. “Dipingere per accogliere una somiglianza, per non dire identità”. Il visibile, questa “immanenza che subentra al suo contrario”: ecco che cos’è la pittura. Dipingere sarà di conseguenza per qualsiasi pittore vedere dinanzi a sé “questo germinare segreto, incomprensibile, ma innegabile, del vissuto”. “La pennellata riconosce, si rammenta, anticipa, tesse un dramma, contraddice, si impadronisce di sensi fuggiaschi, apre il sipario sul malvisto, unisce l’incompatibile, intravede l’impossibile”. “Alla fine è sempre il nostro oscuro vissuto che tiene banco”. Sarà proprio questa relazione, sempre cedevole e sempre ricostruibile a costituire la vera posta in gioco. In questo senso l’arte diviene l’unico strumento che l’essere umano ha a disposizione per     “fondare un credo sinonimo dell’esistere”. E la Drudi inscrive la pittura di Scialoja, il quale ha sempre dipinto a favore di un progetto, in cui il tempo ha sempre infilzato i processi psichici, all’interno di un “intrico di scomparse, resurrezioni, assembramenti e riverberi”. L’identità è affidata alle parvenze che si materializzano sulla superficie. “Le impronte con il loro carico organico nel loro disporsi in orizzonte sono il segno che differenzia l’opera di Scialoja da quelle solo gestuali e testimoniano “del sentimento di sé nel flusso di cui non sappiamo nulla”. E ove anche la  “la pennellata è in se stessa  figura”, capace cioè di far risalire sulla superficie della coscienza ciò che riconosciamo, a cui attribuiamo identità. Obbedire alla torsione del polso, dare spazio alla memoria inconsapevole, afferrare l’universo sospeso e dargli corpo: “prendere alla lettera la visione” e “leggere figure e gesto contemporaneamente”.


                                                                                                           Rosa Pierno

Nessun commento: