mercoledì 2 novembre 2011

Mario Quattrucci “Da una lingua marginale” Robin, 2011

La piccola antologia che raccoglie alcune poesie tratte dalla produzione poetica di Mario Quattrucci, arricchita da una compagine critica di notevole profondità (Mario Lunetta, Francesco Muzzioli, Marcello Carlino, Filippo Bettini, Tullio De Mauro, Mario Socrate), copre gli anni che vanno dal 1983 al 2010 e fornisce una vista sulla sua produzione poetica in grado di restituire la ricchissima variazione delle forme forgiate a partire dai contenuti venuti a maturazione nel corso degli anni. Ma, cercando di cogliere lo zoccolo duro di tale intensa attività poetica, colpisce  fin da subito l’ancoraggio a ciò che è quotidiano, esperienziale, poiché è in esso che vengono messe alla prova le idee: la partita che viene giocata non prevede astrazione e generalizzazione, cioè non prevede l’inevitabile semplificazione che uno schema produce sulla realtà. Anche spazio e tempo sono come annegati nel percetto: nessuna impressione, nessun intendimento che non siano connotati/deformati da spazio e tempo: “Si stringeva il passo alle cupe facciate ai chiusi androni impenetrabili e tetri alle finestre // prive di vita dietro  cui indovini i saloni deserti gli oppressivi intarsi  dei soffitti: // dalla via lunga escluso il sole velata incenerita la romana luce….”.  E il tempo, oltre a ciò, alterasse, tirando in lungo e in largo l’immagine, e rendendo non confrontabile quel particolare momento con altri momenti tramite analogico confronto, il che ha anche una conseguenza di non poco rilievo sulla metodologia storica con cui s’interpretano i fatti.  

La perlustrazione effettuata non con il solo sguardo, ma con tutti i sensi, è registrata nella poesia “Variazioni n.24”. ove nella notte l’olfatto assurge a senso primario e ai presenti effluvi si miscelano quelli risalenti dalla memoria a disegnare un orizzonte in cui la tecnologia ha preso il posto della natura, ma nemmeno alla natura è concesso il ruolo di madre salvifica poiché “brulica di colera e anòfele lo stagno / (tra Cape Town e Cristiania, lo stagno ) / pullula di nafta l’acquitrino”. Né è possibile avere fiducia nella cultura, poiché dal suo ventre nascono anche armi di offesa. “Ma il melo, pur ultimo, fiorisce / e l’Albero di Giuda ancora sanguina: / aprile mescola come sempre / memory and desire” è constatazione che la doppia natura dell’uomo è eterna. La riflessione, la consapevolezza che non si perverrà mai a soluzione della sofferenza umana, di cui, peraltro, la poesia è ineguagliata portavoce, non pone freno alla meditazione sulla storia umana che può sempre registrare un miglioramento delle condizioni esistenziali.

In questa macchina scenografica mobilissima, assistiamo a incontri, a sguardi, a pensieri, a considerazioni, tutti convocati a formare le ragioni, i moventi, avendo presente utopico obiettivo, non raggiungibile se non per parziali e imperfetti aggiustamenti. E ciò proiettando non solo nel futuro, ma anche retroattivamente, a rendere conto delle scelte per scoprire dove si annidasse lo smacco, se fosse stato possibile evitare l’errore o dove si annidasse l’illusione: “il mondo è la sostanza e un movimento ricerchi / com’è della natura così per la tua esistenza / ma se un bene dà illuminazioni disinganno rende / che sia nel movimento e in fissità”. La ragione non è messa sul banco degli imputati, perché assieme al sentimento è strumento di liberazione, ma mai posta sul podio della sola positività. In controluce, il riferimento è alla Scuola di Francoforte, ma la cultura filosofica del poeta non si riduce mai a mera proiezione nel tessuto poetico, inducendo a una sua costante verifica.  Persino lo stesso linguaggio, innegabile strumento del poeta, è considerato slabbro da cui fuoriescono progetti e delusioni insieme: “tornano / i nessi del passato con lo svariare dei segni / con quei verbi flessi variati sull’inverso / nel senso controverso di questo amaro  / non amato mio tempo”. Di  tale tormentata ricerca e di tale amaro resoconto se ne fa carico la continua variazione del verso, ora prosciugato ora prosastico, come alla ricerca di una modalità ogni volta tagliata su misura,  ora adeguata alle ragioni storiche ora aderente alle verità individuali.   Diversamente dal pensiero di Rousseau che nega valore e importanza alla libertà dei singoli per affermare invece che l’individuo è libero solo quando aderisce alla volontà sociale, Quattrucci non dismette mai l’attenzione, la cura sollecita portata ai singoli e la sua attenzione ci pare rivolta a una società che non venga più ricomposta come un tutto organico, ma come un’associazione di liberi individui. Popolo è concetto ambiguo e ingannevole, poiché non esiste un popolo, come un tutto distinto dalle parti, distinto dagli individui che lo compongono, secondo la lezione di Norberto Bobbio e contro la stessa visione brechtiana.

“Cercavamo risposte al centro di quell’ombra: / non più agevole e in luce era il cammino, / non più certo il domani del domani”. Una tenace melanconia non consente di trarre favorevoli auspici per il futuro.  È come un avvertimento d’inevitabile pondo, un’esperienza che non è stata mai smentita e che dona tinte dimesse anche alla mai deposta ricerca di ulteriori vie da percorrere, più adeguate. Se l’antologia di testi poetici si configura come un diario esistenziale,  di bilanci e di revisioni, non è valutazione che abbia valore solo personale: è poesia civile,  ove il  rapporto con l’altro traccia un metodo: più che dialettico, di verifica costante e messa in discussione, di condivisione e adesione. In altro modo, di questa poesia in cui la filosofia è stata come decantata, assorbita e messa alla prova sul terreno della prassi politica ed esistenziale, ciò che resta si può vedere come in controluce sul fondo di questi versi: una densità corposa, una consistenza elaboratissima raggiunta tramite lunga decantazione. Ove tale decantazione è ottenuta con l’inevitabile  distacco che la riflessione richiede, quasi estraneità al proprio esistere. L’attenzione continua, il monitoraggio della cronaca, dei giornali, dei mezzi di comunicazione, degli eventi politici, scientifici, culturali, in una sola parola della storia, rappresenta il punto focale  e, inoltre, drammatico perché troppo raramente si può registrare un avanzamento nella libertà e nei diritti. Appena flebili speranze, in questa poesia che raggiunge profondità grigie, vellutate, miti e sofferenti, a tratti incenerite e in cui la cifratura lessicale vale come spietata luce.         
 
Rosa Pierno

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