venerdì 23 dicembre 2011

“Land Art oltre l’orizzonte e dentro la stanza” di Gio Ferri

Della Land Art o Earth Art molto si è detto in oltre quarant’anni a partire più o meno dal 1967-1970 quando, alla Fernsehgalerie di Hannover, Gery Schum trasmette il video intitolato appunto Land Art. La ventura inizia, anche in Italia, in concomitanza con l’affermarsi dell’Arte concettuale e dell’Arte povera. Non si è lontani..alla lontana (!) dall’antica filosofia dada del ready-made. L’oggetto non rappresentato, bensì trovato, manipolato e assurto, per volontà dell’artista e comprensione del fruitore, esteticamente ma oltre ogni tradizionale legge estetica, a monumento di sé. Tuttavia se il Dada lavorava e rivelava la dismisura di oggetti minimi e quotidiani, la Land Art si rivolgeva alle realtà materiche e territoriali e interveniva sugli interminati spazi – si perdoni la citazione ardita –, e sui sovrumani silenzi. Anche in relazione, oltre la stessa pratica dell’arte, al dibattito che in quegli anni interveniva sulle tematiche ecologiche relative all’ambiente. Perciò si è detto anche di un’Arte ambientale. Non è il caso di riassumerne qui malamente la storia creativa e critica di questi quarant’anni. I lettori di “Territori” certamente la conoscono. Comunque per comodità si può rimandare al lungo saggio, corredato da una splendida iconografia, di Federica Tammarazio del gruppo di ricerca che ha lavorato all’opera enciclopedica L’arte del XX secolo, Volume IV, 1969-1999, Neoavanguardie, postmoderno e arte globale, edito da Skira nel 2009. I repertori, le biografie degli artisti, la ricca bibliografia critica ne fanno uno strumento d’informazione e d’indagine forse unica. Si può parafrasare Federica Tammarazio  sottolineando che “Questa esperienza  artistica è caratterizzata da una relazione immediata tra il progetto e l’ambiente[…]. L’arte ambientale configura le proprie ricerche intono al concetto di spazio naturale in quanto realtà che va oltre la semplice funzione panoramica e comprende in sé l’ubicazione, il contenuto e il medium espressivo attraverso cui si verifica la sintesi estetica tra opera, sito e tempo…”. Solamente per rammentarci (se ce ne fosse bisogno, ma non credo) di alcune realizzazioni più significative ormai storiche potremmo citare (ma innumerevoli sono le installazioni ambientali degli inizi)  Ireland (1967) di Richard Long, One hour Run (1969) di Tennis Oppenheim. E più tardi la spettacolarità  clamorosa degli immensi effetti ambientali delle installazioni di Christo con la moglie e abituale collaboratrice Jeanne-Claude: i ben noti mastodontici paccages dei monumenti storici realizzati a Parigi, a Roma, a Milano e un po’ dappertutto in giro per il mondo. Forse l’opera più straordinaria e affascinante, più land art, e insieme più effimera (il ventola distrusse in pochi giorni) fu l’immensa vela arancione che univa, sostenuta da cavi d’acciaio, per 381 metri, due alture del Grand Hogback di Rifle in Colorado. Titolo “Valley Curtain” (1970). Christo e Jeanne-Claude, con altrettanta spettacolarità, circondarono con una corona di tela sintetica arancione (12.780 metri quadrati) ben due isole della  Biscayne Bay a Miami in Florida. Titolo “Surrounded Islands” (1980-1983).Robert Smithson sul Great Salt Lake nell’Utah realizza la Spiral Jetti (1970), una spirale di 457 metri di materiale di riporto , rocce, cristalli di sale che si protende dalla spiaggia verso il centro del lago. James Turrel fotografa il progetto in volo del Roden Crater (1984) nel Painted Desert dell’Arizona. Charle Ross nella depressione naturale in Mesa, New Mexico, installa un immenso osservatorio astronomico, Star Axis (1971), in cui un rotor (che fa pensare a Duchamp) ruota appunto ininterrottamente per 24 ore e registra in quel tempo i movimenti delle stelle cha lasciano sulla lastra fotografica striature e ‘scritture’. E ci sono poi i progetti su percorsi urbani in cui l’artista traccia sulle mappe i luoghi di un immaginabile intervento, a volte anche sonoro, infine del tutto concettuale. Clive van den Berg, per esempio, per la prima Biennale di Johannesburg espone monumentali disegni  tracciati in un ambiente chiuso dell’esposizione.
Altrettanto sorprendente, e potremmo dire magica, fu l’installazione  nel New Mexico di Walter De Maria che piazzò su 1600x1000 metri di superficie  una serie numerosa di pali d’acciaio  inossidabile che, veri e propri parafulmini, attiravano durante le tempeste i fulmini creando  in cielo, fra cielo e terra, scritture spaventose e bellissime. Titolo: The lightning Field (1977). Molte di queste esperienze  hanno potuto ovviamente essere semplicemente  immortalate in fotografie o videotape. E osservate o ‘godute’ nella loro interezza  esclusivamente in volo aereo. La pratica della Land Art, che, in ambito ambientale e ‘paesaggistico’, possiamo qui solo brevemente rammentare, negli anni, al di là delle operazioni macro-territoriali, per loro natura volutamente ostili alla limitazione galleristico-museale – probabilmente anche per ragioni economiche e commerciali  ha poi ritrovato lo sbocco  più intimo e meno osservabile rientrando, come installazioni, nelle gallerie e nei musei. La natura dal paesaggio alla stanza chiusa, ma aperta all’infinito della mente. L’artista non si è solamente fermato nei siti per esaltarli ed esaltarsi, ma dai luoghi stessi ha portato in ambiti più ristretti le cose di natura – legni, terra, rocce, animali..talvolta solamente metafore ambientali. E veniamo parallelamente al tempo dell’Arte Povera (italiana) e dell’Arte Concettuale. Una di queste metafore può far pensare, per chi se ne rammenti, ad alcune opere pittoriche di De Chirico in cui si rappresenta un viaggio per mare .. in una stanza. Un ‘odisseo’ sulla sua barca rema in una stanza chiusa, ma illuminata dal sole fittizio, di carta forse, che entra da una finestra!
Federica Tammarazio nota, a proposito di questo ‘rientro’ che: “Gli esterni urbani spesso si accostano, come già in alcune esperienze concettuali, all’analisi degli interni in cui l’uomo conduce la propria esistenza [..]. [Si fa strada] un concetto [..] di occupazione dello spazio e di identità, instaurando un dialogo molto serrato con le architetture urbane e interiori”. Già Robert Morris, per altro, in Untitled (1969) aveva raccolto in luogo chiuso  montagne di materiale di riporto, reperito nei siti visitati in giro per valli e lande desertiche. Claudio Costa realizza con materiali terrosi  e fotografici Dieci spazi urbani racchiusi in una teca (1975). Pino Pascali  aveva installato  alla Galleria nazionale di Arte Moderna di Roma  32 mq di mare (1967) componendo la struttura con trenta bacinelle d’acqua blu. Jannis Kounellis colloca veri e vivi Cavalli (1969) alla Galleria L’Attico di Roma. Giuseppe Penone intervenuto in luogo su terre e su alberi, gli alberi li espone in galleria con il titolo Ho intrecciato tra loro tre alberelli (1968) e Albero di sette metri (1980). Sempre Penone al castello di Rivoli (e poi anche alla Biennale di Venezia del 2007) realizza una scenografica e spazialmente coinvolgente installazione dal titolo Respirare l’ombra (1999): 199 reti metalliche che racchiudono e sorreggono muschi e accumuli di foglie d’alloro.  Charles Ray per questa via recentemente presentata Los Angeles Hinoki (2007). Ma già Mario Merz  aveva realizzato Igloo con albero ( (1969). Per le sue monumentali seriali installazioni di granito, una più vasta citazione a parte meriterebbe Joseph Beuys, fra i più conosciuti – certo non solo per la Land Art ma generalmente per l’Arte Concettuale e per la Body Art. Mi si perdonerà se, per completezza e a giustificazione di queste brevi note  storico-critiche, citerò in proposito alcune mie ricerche degli anni Settanta/Ottanta. Giò Ferri, Studio per petroteca. Manipolazioni di cumuli di sabbia: Gio Ferri Smottamenti (1985). Interventi boschivi: Gio Ferri Sacralità della terra (1985). Recentemente Alice Aycock ha realizzato  Sand Fans (2010), un cumulo di sabbia con quattro ventilatori che creano una duna sempre mutevole. Fra le più recenti realizzazioni vanno citate: il ‘baratro’, una profonda diaclasi in galleria , alla Tate di Londra  di Doris Salcedo, Shibboleth (2007-2008). E per la 53° Biennale Veneziana, all’Arsenale, il Giardino delle Vergini di Lara Favaretto  Momentary Monument (2009) un conturbante artificiale (dantesco?) acquitrino, rappresentazione di un tempo, il nostro, in cui natura ed etica manifestano un inesorabile disfacimento.
E’ naturale che, seppure a distanza e ovviamente con diverse motivazioni, si instauri un colloquio tra Land Art e Architettura. Uno degli esiti più efficaci è senza dubbio il connubio fra l’ambiente collinoso sopra Berna e il Zentrum Paul Klee di Renzo Piano: natura e forme architettonico-scultoree dialogano in grande armonia. Su questa rivista “Territori” al n. 20/2009 Laur Fabietti Fabriani illustra il suo articolo sull’Agro Pontino con una planimetria del territorio, una labirintica ragnatela di tracce-scritture, che al di là della ricerca tecnico-funzionale crea un’emozione segnica che non manca di una carica estetica: è in qualche modo paragonabile all’immensa ragnatela di corde elastiche (una galassia astronomica) installata da Tomas Saraceno nel salone d’accesso al Padiglione Internazionale della 53° Biennale di Venezia. Accenno, senza la pretesa  (anche per carenza di spazio) di approfondire l’argomento, a una recentissima ricerca (2009) che già nel titolo ci stimola a una suggestiva ripresa creativa  e critica delle motivazioni della Land Art. Si tratta di “Geology in Art” del geologo italiano Andrea Bucon. Chi voglia saperne di più può consultare i siti www.gelogynart.com e www.tracemaker.com). Basti qui citare, dal capitolo assai significativo The Abyss of Time, le indagini visuali delle stratificazioni rocciose documentate con intenzione estetica da Steven Siegel: Like a hive, like an egg o Like a rock, from a tree. Oppure i graffiti naturali isolati e fotografati, con il titolo di Deep Time, da Nien Schwarz che sviluppa le connessioni tra scienza e spiritualità – mentre il risultato iconografico ricorda i magmi pittorici, tuttavia ‘strutturati’di Jackson Pollock in Pali Blu della collezione Ben Heller di New York. Per inciso va detto che Bucon non si limita alle arti visive, ma coinvolge nella ricerca geologica anche la poesia e la musica. 

                                                                                     Gio Ferri


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