martedì 20 marzo 2012

Jean Paulhan “Breve introduzione alla critica” Marietti, 1992

In “Breve introduzione alla critica” pubblicato in Francia nel 1951, ed edito da Marietti in Italia nel 1992, Jean Paulhan affronta per la critica letteraria una questione spinosa, poiché, anziché stare lì a definire il proprio rosario metodologico, non vuole dare regole e definizione, ma intende sgombrare il campo da errori (e sicuramente ne individua almeno due che gli sembrano mastodontici ancorché paradossali).   

Errori ricorrenti compiuti da critici letterari e da filosofi. Errori che fanno incorrere in un fraintendimento totale della funzione critica riguardo al suo oggetto. Ciò non toglie che Paulhan non voglia screditare la tradizione con le sue regole. Anzi, le ritiene necessarie, ma debbono essere proprie, precise, definite.  Non esclusa l’ambizione a un tipo di scientificità almeno fin là dove è possibile.

Non sorprenda la sua volontà di non proporre le proprie regole: nessun proclama, nessuna presa di posizione a favore di un corollario di norme che dovrebbero garantire la funzione critica, poiché l’atteggiamento risolvente è che non bisognerebbe mai eludere la cura e l’attenzione verso l’opera, il rispetto della quale garantirebbe quasi a cascata un buon funzionamento della critica stessa.  

Il libretto, agilissimo, leggero, evasivo ed eludente solo per chi volesse arrivare al nocciolo duro della pratica critica, è invece costruito su un movimento digressivo, di allontanamento, non centrifugo, che pare non toccare la materia di cui tratta, sebbene il titolo circoscriva un preciso campo d’intervento: punta diretto a sbaragliare alcuni comportamenti deleteri. E lo si vede quando assume, in negativo, gli atteggiamenti di due critici André Rousseaux e Jean Paul Sartre, ravvisando nella loro riflessione un fraintendimento totale della materia trattata: niente di meno che l’opera letteraria e il linguaggio di cui è costituita.

A Rousseaux che crede di individuare in alcuni testi infrazioni al bello stile, alle regole grammaticali, declassando per questo gli autori che le hanno commesse, Paulhan risponde che tali modalità sono avvalorate da grandi scrittori appartenenti alla tradizione letteraria del Cinquecento e del Settecento, oltre che dai linguisti del Novecento,  e dunque che non si offre nessun servigio alla letteratura se non se ne comprendono obiettivi e diversità nell’espressione e nell’uso.   L’uso ha bisogno di essere scosso, anche la svista ha un suo fascino propriamente letterario: “Non sempre l’incorrettezza è senza vigore e senza sorprese”. Fonetica, semantica e stilistica non sono sufficienti a giudicare, forniscono solo una griglia.

Mentre addita Jean Paul Sartre, il quale mette sotto accusa il linguaggio, addossandogli la responsabilità della scarto non solo tra realtà e parole, ma anche tra pensiero e parola. Ove invece è di tutta evidenza che è nell’interpretazione che diamo alle cose, tramite il linguaggio, ciò che eventualmente mette in crisi, crea un problema. E in questo caso, la critica di Paulhan diviene radicale poiché inevitabilmente finisce col mettere in discussione Sartre anche in quanto filosofo. O comunque la filosofia, accusata da Paulhan di ricorrere a trucchi, di dimenticare ciò che sa, di ricorrere troppo spesso alla tabula rasa.

Sarà il partito preso di Sartre a fargli “mettere insieme un manifesto letterario plausibilissimo, che però lui nega subito essere un manifesto letterario, di vedere solo il dispiegarsi di una volontà libera, nella sottomissione passiva dei suoi personaggi  ad alcune regole morali poste una volta per tutte” e a fargli scrivere uno studio di trecento pagine sulla letteratura dove “neppure per un attimo, affiora il dubbio che questa letteratura (dalla quale d’altronde lui ha escluso la poesia) potrebbe anche essere letteraria”. E, pertanto, se Sarte “si sbaglia completamente sul linguaggio, come potrebbe vedere chiaro in queste opere di linguaggio: un manifesto, dei romanzi, la poesia, la letteratura”. Il partito preso del filosofo gli impedisce di vedere l’evidenza.  

Sartre, che dovrebbe occuparsi di linguaggio, in realtà non ne parla neppure una volta. Ma non è il linguaggio a essere insufficiente, in quanto “Sono i pensieri che differiscono profondamente, non le parole”. Anzi con esse possiamo esprimere sentimenti e pensieri. La verità è che “se il linguaggio non è causa del malinteso, quanto meno lo rivela nel luogo in cui non ce lo aspettavamo”. Se Proust, Parain, Sartre, offerti da Paulhan come esempi di un atteggiamento errato verso la supposta responsabilità del linguaggio traghettano da una condanna delle parole alla condanna di tutto il linguaggio, in questi autori, per Paulhan, non può che ravvisarsi la più naturale  e ingenua delle reazioni.

Qui il richiamo è al senso comune delle cose che a volte pare far cilecca nel pensiero variamente attorcigliato della categoria dei filosofi e slegato dalle esperienze reali, dall’evidenza dell’uso e degli strumenti. Pur anche nella critica delle arti figurative, che Paulhan ha frequentato non occasionalmente, la modalità di restituzione critica risulta essere la stessa: affrontando le opere d’arte non con un linguaggio specialistico, ma con le considerazioni di un fruitore colto e sensibile, elegante e appassionato, che prima di tutto tenta di comprendere la specificità dell’oggetto che affronta. 

                                                                             Rosa Pierno

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