mercoledì 25 aprile 2012

Flavio Ermini "La parola rizomatica" I serie, Anterem

NOTE SULLA RICERCA LETTERARIA DI “ANTEREM”

PRIMA SERIE DELLA RIVISTA: 1976-78



Il nome “Anterem”
Il nome “Anterem” nasce porgendo attenzione al valore originario della parola, chiamata a essere il luogo di raccordo tra sensibilità e percezione. Questa espressione fa cenno all’«= 0» hölderliniano (Il significato delle tragedie e Mnemosyne) che – evocando l’«uguale a zero» di Sofocle (Edipo re) – richiama quel «procedimento dello spirito poetico» che impone all’essere e all’esistere di presentarsi privi di separazione, indivisi, e tuttavia reciprocamente distinti.
Altri riferimenti si trovano nelle «archai» che Nietzsche colloca nel «sottosuolo della storia» (Umano, troppo umano) e che Deleuze e Guattari affidano a quella parola rizomatica (Rizoma) a cui è dedicata la prima serie della rivista (1976-78).
Ma l’opera su cui esplicitamente fa presa il nome “Anterem” è la Scienza nuova di Vico, dove leggiamo: «Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso, ed è propietà de’ fanciulli di prendere cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologico-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti».
Sarà lo stesso Vico a citare a questo proposito una riflessione di Spinoza: «La fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio».

La parola rizomatica
La prima serie (1976-78) nasce per una letteratura senza generale, senza gerarchie di senso, e all’insegna del comandamento di Kant: «Sapere aude», osa servirti del tuo intelletto.
La serie ha per nome La parola rizomatica. Aperti in squarci. Evidente il riferimento a Rizoma di Deleuze e Guattari, volume pubblicato proprio l’anno della fondazione della rivista: 1976.
Vanno a questo proposito ricordate le parole di Silvano Martini (poeta, tra fondatori di “Anterem”) sul concetto di letteratura rizomatica, perché costituiscono un vero e proprio programma per la prima serie.
«L’albero e il rizoma sono strutture che stanno a indicare due tipi opposti di letteratura. Cos’è un rizoma? Un fusto sotterraneo di piante erbacee perenni, simile a una radice. L’albero, invece, possiede un fusto esterno al terreno, che poggia su radici e si espande in rami. La letteratura arborea è centrica. Quella rizomatica è acentrica. Nella prima tutto si svolge tra vertice e base, in rapporto di chiara concatenazione e di rigida dipendenza. Nell’altra, ogni svolgimento è base e vertice insieme, e tutti gli svolgimenti hanno la medesima importanza. La letteratura rizomatica permette qualcosa di specifico che normalmente non si dà: il collegamento di un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi della sfera vitale. La cultura, così considerata, è una cultura “senza generale”. Questo significa che la circolazione del senso ha una libertà illimitata. La possibilità di generare innumerevoli centri di discorso sopprime la possibilità contraria dell’instaurazione di un centro egemone. Il policentrismo è la moltiplicazione insopprimibile dell’unicentrismo. Siamo in una specie di presente immobile. Il tempo vissuto non si palesa più come distacco da un passato e scorrimento verso un avvenire. Ma come in uno stato di indistinzione. Una sospensione piuttosto che un fluire. Che cosa si propone una letteratura di questo genere? La distruzione di qualsiasi tabella assiologica immutabile. O la rinascita senza interruzione, sotto altra specie, di queste stesse tabelle. La difesa di questa strenua e cosciente anarchia dei sentimenti e delle sensazioni vorrebbe preservarci dal consolidamento dell’innaturale. Uno stato esistenziale come libera pulsione è uno stato di sempre rinnovata scoperta. È l’occhio non appannato davanti alla scena del mondo. O l’occhio che muta direzione prima dell’intervento mortificante dell’assuefazione. Una letteratura fondamentalmente anarchizzata, ma non priva di controlli, dovrebbe garantirci quella costante possibilità di fuga dall’artiglio delle cose, che consenta alla nostra esperienza di mantenersi cangiante. La perdita della centralizzazione burocratica di una letteratura a congegni unidirezionali  e inalterabili dovrebbe farci recuperare tutti gli strati dell’essere: da quello ideativo a quello subcoscienziale.»
Queste riflessioni – pubblicate sul n. 7 (aprile 1978) della rivista – rivelano che è svanita l’idea di un centro unitario che rappresenti un riferimento sicuro per la nostra esperienza. Precisano che nel corso di ogni nostro atto siamo davanti a un insieme di pulsazioni luminose che generano costellazioni variabili sia per forma sia per intensità. Osservate dal poeta, tali costellazioni compongono disegni che un altro occhio determinerebbe in modo diverso. Sono le figure sotterranee della nostra anima: quasi un olimpo rovesciato che ha più familiarità con i demoni che con gli dei.
Ebbene, il lettore di poesia deve riuscire ad accogliere il presupposto che a lui solo e a nessun altro in sua vece spetta il compito di mettere a fuoco queste costellazioni del senso. Egli deve sottrarsi a un potere che lo vuole docile a un senso precostituito – ovvero indaffarato, tra il tintinnio delle monete e l’apatia del pensiero – e conferirsi in assoluta autonomia un potere che lo assegni a un’ulteriorità sempre da pensare.
Accade così che all’«osa sapere» di Kant si venga a sommare alfine il «sapere a ogni costo» di Nietzsche.

                                                                                 Flavio Ermini

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