mercoledì 27 giugno 2012

Immanuel Kant “Che cosa significa orientarsi nel pensiero” Adelphi


Nella querelle sorta tra F. H. Jacobi e M. Mendelssohn sulla concezione razionale del divino, raccontata nella ricca presentazione da Franco Volpi nel volume Che cosa significa orientarsi nel pensiero, Kant viene chiamato in causa per dare il suo parere, sia perché egli si era già espresso sui rapporti tra ragione e fede sia perché l’accento inevitabilmente cadeva sui limiti del conoscere razionale e  Kant si era già espresso anche su “la possibilità o l’impossibilità della metafisica, il problema dell’inconoscibilità dell’Assoluto, la razionalità o naturalità della religione.”

Kant non si schiera né con l’una né con l’altra parte, nel testo che pubblica sulla rivista “Berlinesche Monatsschrift”, l’organo dell’illuminismo berlinese, nel 1786. Non con Jacobi, “pur condividendo con lui l’idea che la conoscenza razionale non è in grado di oltrepassare i limiti dell’esperienza”, perché Kant non vuole rinunciare alla ragione, e cadere così nell’arbitrio e nell’esaltazione dell’intuizione, né con Mendelssohn, poiché Kant è scettico circa la possibilità di approdare con essa al porto dell’Inconoscibile.

Più volte Kant ha mostrato che “la ragione che si spinge ad argomentare in merito alle idee metafisiche di Dio, dell’anima immortale e della libertà finisce per impigliarsi in una serie di antinomie, senza poter dimostrare né concludere nulla”. Non gli non resta che indagare sul significato del pensiero e sul modo in cui ci si può orientare rispetto al tema dell’Incondizionato verso cui il pensiero ci spinge, ma di cui non possediamo punti di riferimento.  È per lui perciò necessario verificare se il concetto con cui osiamo spingerci al di là di ogni esperienza possibile” sia libero da contraddizioni e anche ricondurre “il rapporto dell’oggetto  agli oggetti dell’esperienza  a concetti puri del’intelletto”.

Kant intende stabilire dei punti di ancoraggio utilizzando l’analogia con l’orientamento geografico matematico. E vuole ancorare questa capacità orientativa nel soggetto, ma restando pervicacemente attaccato a un riferimento oggettivo, tant’è che Heidegger rilevando quest’aporia kantiana la rovescerà nell’appartenenza del soggetto al mondo:  l’essere è già da sempre in un mondo per potervisi orientare.

Ma nella stesura del testo, Kant s’imbatte anche in un’altra difficoltà: “il nostro conoscere, per esser tale, deve riempire le forme vuote prodotte dal pensiero, cioè i concetti dell’intelletto o categorie, con i contenuti forniti dall’intuizione cioè dalla sensibilità”. Ora, seguendo Volpi, nell’ambito metafisico noi non disponiamo di un’intuizione intellettuale che ci esibisca i contenuti degli oggetti soprasensibili, la qual cosa ci rende incapaci di produrre conoscenza in senso vero  e proprio. Kant risolverà la questione  dicendo che non rimane che attenersi a un principio soggettivo e cioè al sentimento del bisogno proprio della ragione. E, guarda caso, questo bisogno della ragione è l’”esigenza di andare oltre la serie del condizionato spingendosi fino all’Incondizionato”. Infatti,  per Kant la nostra ragione sente già un bisogno di porre il concetto dell’illimitato a fondamento di tutto ciò che è limitato, giungendo a presupporre l’esistenza stessa dell’illimitato, della finalità e dell’ordine. Ciò naturalmente non produce niente di dimostrabile ed essere consapevole di questo è già un bel traguardo per Kant, il quale mette sull’avviso coloro che vogliano “spacciare per libera cognizione ciò che è soltanto presupposto inevitabile, in modo da non offrire senza bisogno all’avversario con cui ci siamo messi a dogmatizzare punti deboli di cui si possa servire a nostro svantaggio”. 

La ragione pratica sceglierà allora le idee che soddisfano il suo bisogno: la libertà, Dio, l’immortalità. Dove ciò che si ottiene è che l’uomo sceglie, liberandosi dalla causalità. E dunque l’orientamento del pensiero non è riducibile alla dimensione logica, ma  tuttavia il bisogno della ragione, poiché trova origine da un motivo obiettivo della realtà, ossia dalla legge morale, la quale “obbliga necessariamente ogni ente razionale, dunque lo autorizza a presupporre a priori, nella natura, le condizioni ad essa conformi” rende queste ultime inseparabili dall’uso pratico della ragione.

Resta comunque aperto il divario tra ciò che è ogni fede ritiene vero e sufficiente  in termini soggettivi e ciò che  in termini oggettivi è cosciente della propria insufficienza. “La fede non potrà mai trasformarsi in sapere nemmeno con l’uso della ragione”. E viceversa, nessun dato naturale della ragione e dell’esperienza potrà mai trasformare in sapere la pura fede. Ma tale divario è esattamente ciò che salva la capacità dimostrativa della ragione  dagli attacchi portati all’indagine autonoma da chi vuol prevalere su di essa: “La ragione si sottomette esclusivamente alla legge che essa stessa si dà”.  La ragione è il “bene sommo in terra, cioè il privilegio di fungere da pietra ultima di paragone della verità”.


                                                                                      Rosa Pierno

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