lunedì 4 giugno 2012

Mario Fresa “Il bene”, Edizioni Marocchino Blu, 2007


Suadente la voce di Mario Fresa si leva dalle pagine di “Il bene”, Edizioni Marocchino Blu, 2007, come un aroma, che provenga da osmotico passaggio tra cieli bagnati e vene, stretti insieme da parole di miele che richiedono rallentamento del respiro, tono affabulatorio. Un vero e proprio fiotto costante interrotto solo da proposizioni avversative che con la loro serrata frequenza incalzano l’apparente supina fissità di ciò che è: nulla che si percepisca e si pensi può riposare nella sua essenza: lo svolgersi incessante è esplicito riconoscimento che solo il divenire esiste.  

Dentro quei nuovi flutti si disperde all’improvviso
un sole così gonfio di lame e di sorprese;
ma poi tu guardi al fiume nel riflesso di questo pieno
intendersi che subito rinasce ma non parla di giustizia;
ma custodisce morbide sostanze che inventano una
vincita di farmaci segreti e di timori.
Le leggi del volere riferiscono: gite annunciate
sopra la luce delle parole nuove.

La posta in gioco non consisterà certo nella scelta fra i due versanti della medesima onda, ma si dispiega con scrosci e raffinatissimo elargire di sfaccettature, ambigue consistenze, tramate illusorietà, nella consapevolezza dell’infida posizione da cui si guarda al mobile teatro delle cose! Questo preziosissimo restare in equilibrio su impercorribili versanti, mentre si affondano i piedi nella materia molle delle parole nuove, rende  questa silloge sontuosamente bizantina: splendida nell’ora del tramonto, quando le cose si percepiscono vividissime per un lucore che proviene da consunta luce.

“Tranelli” e “gallerie di soluzioni” proiettate con un sorriso su “pareti sacre” fanno affiorare nel lettore precisi contesti di riferimento filosofici subito scambiati come in un mercato nero con elementi provenienti da un mondo in cui non la volontà regna, ma specchi e riflessi “gesti iridescenti” e “ricami”: apparenze barattate con sostanza.

Si inscena attraverso le parole un mondo straordinario, familiare e distantissimo, di sogni e  sorgenti, di calcoli e predizioni, quando fra di essi non esisteva frattura. La bellezza vi regna sovrana, domina menti e cuori, facendoci intravedere una via che non si oppone alla visione della volontà e della chiarezza, ma che la contiene: “piano delle armonie / che dicono e disfanno; che toccano e disfanno”.

L’amante, a cui il poeta si rivolge, ci sembra pretesto – personaggio introducente al mondo solo intravisto    per tessere le lodi di una visione incantata e decantante, di rara fascinazione.  Quasi l’amore, più che l’amata, il viatico per simili visioni, ardenti e supplici. Poiché il poeta vuole penetrare in questi interstizi di visione, in questi specchi labirintici, fra profili e cornici, fra offerte e inventario, fra veli e bisbigli: se mai qualcosa deve essere non può darsi che in queste forme: instabili e fugaci, di eccelsa fattura e incorporee.  E valga come dichiarazione di poetica la cesellata affermazione: “Poiché su questa corsa ho costruito un / desiderio di ferite e di digiuni, di un’infanzia / catturata dalle vere meraviglie, sempre / disposte al sonno, all’invadenza, al bene”.

Non esente da inganni e voltafaccia, benché sempre accolta con una messe di sorrisi – vero e proprio simbolo di accoglienza e accettazione del rischio e della sofferenza e di una consapevolezza responsabile e non lasciata al mutuo e libero gioco delle casuali proiezioni – pure, questa diversa disposizione, accoglie la domanda che scuote la rifulgente e rifrangente  costruzione:

“Ma dimmi e ascolta: quale ventaglio di sonniferi
concederà la pace a questo vetro di visioni
che ci osserva, che ci ricorda l’arte di separare
il campo delle intese e delle feste,
quella virtù di prendere e lasciare?”

Poiché sarà vero alfine che si debbono saldamente tenere le redini anche in un mondo di sogno: tutto può diventare tranello e mancanza, violenza e disarmonia, lì dove l’unione non è che proiezione di figura franta. Non esattamente con la ragione si opporrà resistenza al palesarsi dell’altra faccia della medaglia: ma la si affronterà con le medesime armi: “E in questa tua caduta io mi /riparo; e mi divido; e mi trasformo nella tua veste / che dice allora d’imparare; di risanare e di / toccare”. La rinascita, l’incessante trasformazione, sono la medesima cosa della caduta e della distanza. Nessuna cosa mai definitiva, nemmeno il bene senza il male.


                                                                                            Rosa Pierno

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