domenica 14 ottobre 2012

Franco Fanelli, acquafortista


Mostra, a cura di Guglielmo Gigliotti,  presso la Galleria Aleandri Arte Moderna, via dei Coronari, 146, Roma, dall’11 ottobre al 3 novembre 2012  

                                          
Che lo scudo di Achille descritto nell’Iliade da Omero fosse la più celebre se non la prima descrizione verbale di un’opera d’arte non è da assumere come del tutto arbitraria cornice di riferimento se parliamo dell’opera di Franco Fanelli, che di arte si occupa anche da un punto di vista verbale. Le sue prime opere hanno come oggetto, infatti, uno scudo (Delfica, 1988-89; Eritrea, 1988) ove però accadono singolari cose: non si distingue nulla, se non la linea ovale o tonda  del contorno, mentre al centro, al posto della descrizione, vi è una pugna da cui si alza un polverone segnico, un cozzo brutale d’armi, un clamore che annebbia la vista. Nessuna figura, nessuna città, nessuna gigantomachia (le figure che normalmente istoriavano gli scudi) è nettamente distinguibile. Siamo nel vivo di una straordinaria capacità visionaria che riesce a farsi non solo immagine, ma suono. Le linee, le retinature, gli sgraffi, le barbe si addensano come una nuvolaglia di cavallette, si diradano lasciando trasparire il vuoto, ma mai allignano come riconoscibili figure. Lo scudo come specchio di quel che avviene nella cruenta realtà e di cui per analogia si fa indicatore di senso. Fanelli incatena il senso a immagini mobilissime, metamorfiche, informali attraverso oggetti che divengono espedienti per meglio catapultare il fruitore nell’azione scenica – sempre drammatica. In questo senso nessun oggetto è inerte, ma essenzialmente evocatore di plurime dimensioni temporali e geografiche, giacché in queste splendide preziosissime acqueforti, il passato, nelle sue evenienze,  è l’unica cosa presente:  il presente è solo l’atto della lettura o della visione provocata dall’oggetto evocatore. Il gusto della mescita, dell’accostamento stordente, di chiara derivazione piranesiana,   fra oggetti distantissimi aumenta vertiginosamente la loro capacità di scompaginare e fratturare le medesime immagini che concorrono a formare e da cui affiorano e percolano le nuove colate visive, i sibili e il frastuono del vento o le meravigliose e sensuali palme che crediamo d’intravedere tra le tre colonne del tempio. E le scimmie che troneggiano sulle urne,   le scimmie che condividono, con il ribollire di segni ferrosi su cui poggiano, il loro pelo, quasi a indicare una diretta genesi dal segno. Segno che, fra l’altro, la scimmia condivide con lo spazio, perché la limatura nera segna e macchia di sé pavimento e fondo, rendendoli concreti, visibili, ma dunque sempre in funzione dell’alfabeto originario, diremmo, quello da cui origina il mondo. Si direbbe che è presente persino una fantomatica scala dei grigi in cui il la finezza della peluria del mantello dell’animale è accostata a zone in cui una tramatura più grossa raggiunge rapidamente la saturazione del nero: non trattandosi, nel caso dell’acquaforte, che della gradazione di un finto grigio, visto che è in realtà prodotto solo dalla relazione fra nero e bianco. 


Sembra che, pertanto, Fanelli indichi qualcosa attraverso la presentificazione di qualcos’altro. Dalla torre di Babele, ai vasi cinocefali, dall’Arco di Orange alle lussureggianti palme, le drammatizzazioni in atto riguardano la lotta mortale tra il nero e il bianco, lotta metamorfica in cui i contendenti non temono di assumere le sembianze del nemico,  (si notino i palmizi in Orange II, 2011,  che risultano contemporaneamente proiettati alla base del tempio facendo pensare, questa volta, inoltre, che la superficie riflettente, sia posizionata al posto del fruitore). Il metamorfismo qui diviene un gioco metafisico, nel senso che è al di là, appartiene all’ordine astratto,  all’ordine dei  metodi della rappresentazione: ove l’oggetto è sia proiettante sia proiettato; ma voglio chiudere con una delle immagini a mio avviso più emblematiche, (anche se tralascio in questa occasione di parlare delle non meno straordinarie acqueforti raffiguranti uomini di colore che sono presenti nella mostra): Vaso cinocefalo II, 2011,  in cui l’ombra come una colata lavica proveniente dal fondo non solo lambisce il piede del vaso, ma lo ghermisce, ne ingloba la sostanza, la assimila, la desostanzia,  annullandone qualsiasi volumetria, e dichiarando che la materia del vaso non è il marmo, ma l’inchiostro, e la sua volumetria è solo apparente in quanto appartiene alla bidimensionalità del foglio, poiché è il segno che dà visibilità al mondo.

                                                                    Rosa Pierno


Franco Fanelli è nato a Rivoli (Torino) nel 1959. Vive a Torino, dove dal 1987 è docente di Tecniche dell’incisione presso l’Accademia Albertina di Belle Arti. Numerosissime le mostre personali e collettiva in Italia e all’Estero. Affianca all’attività di docente e artista quella giornalistica, in qualità di vicedirettore de Il Giornale dell’Arte, di curatore della rivista Vernissage e di collaboratore del mensile Style. E’ autore di saggi dedicati ad artisti contemporanei.

1 commento:

Anonimo ha detto...

ciao Rosa: guarda nel mio blog a questo post: http://miolive.wordpress.com/2012/10/17/rosa-pierno-unopera-raffinata/

sebastiano