sabato 29 dicembre 2012

Enza Silvestrini “Partenze” Manni, 2009


Se il soggetto è fra quelli più dolorosi: accudire il padre mentre si sta spegnendo, il tono raggelato, in sordina, a tratti ovattato e asettico, pulitissimo fino a scacciare ogni plausibile ricorso alla retorica, all’ornamento letterario, anzi non esente da un cinismo esile quanto inappellabile, non trattiene, ma fa risaltare la forte tramatura dei sentimenti - persino dei sensi di colpa perché l’autrice sente di sopravvivere al padre - e la riflessione sulla miseria del corpo che si sta consumando.

Con così semplificati mezzi sorprende ancor di più la variegata motilità dei sentimenti, che Enza Silvestrini nel suo Partenze, Manni, 2009,  riesce a mettere in campo. Attraverso l’agonia del padre analizza quel che resta in lei. Ciò che preferisce negli uomini gli viene dal cercarvi qualcosa del padre: “alcuni / una summa / di tutti i tuoi / difetti”, le strategie psicologiche, anche strenue, messe in atto per contrapporsi a lui ora sono poca cosa rispetto all’indifferenza alla vita che lui mostra. Se mai fosse richiesta di risarcimento esplicitata in questo testo, sarebbe richiesta di continuare la battaglia con un lui in forze. Si sa, la battaglia dei figli contro i genitori è ancora battaglia contro se stessi e per se stessi e questo ribalta radicalmente il soggetto del testo, trasformandolo in un altro, visto di tre quarti: la voce parlante racconta del padre per parlare di sé.

Lo stile consente di scorrere senza intoppi sulla pagina, non tralasciando di mostrarsi perfido e di far rintanare la facilità con la quale credevamo di poterlo affrontare. Mai un tratto svenevole, di lirica a buon mercato, ma sempre un rintuzzare continuo, un pungolare che invita a riflettere su ogni istante o accadimento della nostra vita, persino su quello “ del lezzo d’ospedale / che mi si è / attaccato addosso” oppure sulla pazienza che bisogna sfoderare come un’arma di difesa: “ringraziare e non rispondere / facendo attenzione / a costipare l’odio / in un angolo più / lontano possibile / dalle mani”.

Si noterà il verso fratturato, quasi immotivatamente spezzato, come da un respiro inalato e subito trattenuto, in una soluzione di continuità in cui si può dire risieda il vero indice della sofferenza della Silvestrini. Ma è anche un canto piano nella voluta assenza di ogni consolazione: “penso spesso / al tuo stato / e alle tue decomposizioni / immagino / le tue attuali /  modificazioni / le ragioni spariscono /  lente / sola senza convinzioni / temo la tua perdita totale”.

Anche questo tocca mettere in conto nel bene e nel male: la dimenticanza. L’acuta disamina di tutti gli stati legati all’esperienza di perdere un genitore si incrocia con quella, presente nella seconda parte del libro, di un’operazione subita in epidurale ed è come un rivivere l’esperienza del padre dalla sua parte, facendo esperienza del proprio  corpo in ospedale, con persone che non la amano, che  la considerano un numero. Col trattamento del suo corpo ospedalizzato,  in questo odio dichiarato per i medici e le infermiere che le si muovono intorno, forse  il cerchio esperienziale si chiude, restante lucida ribellione a un  corpo che sia considerato solo corpo, non persona, ma anche contro l’inevitabile sentire se stesso come un corpo che reclama esclusivamente cibo o sonno o di finire. In ogni caso, bandita qualsiasi illusione, in queste pagine non ne alligna nessuna, ma l’amore resiste.

                                                                                         Rosa Pierno

1 commento:

Anonimo ha detto...

'Partenze' mi ha accompagnato spesso nel trambusto dei miei viaggi recenti. L'ho letto come una cruda diacronia degli affetti perduti. Il 'prima', il 'dopo', perfino il 'durante', che attraversa il 'sonno' dell'anestesia e che Enza propone come se l'avesse vissuto ad occhi
aperti. Lungo la sua lettura ci si lascia guidare dalla sua mano di
donna ferita nell'intimità dei suoi affetti. Ho conosciuto Enza attenta, assorbita dai suoi
pensieri, eppure curiosa del mondo che la circonda, con la misura esatta di ciò che è e di ciò che la vita rappresenta. Credo che molti immaginino i poeti
come persone trasognate, e forse alcuni di loro appartengono a
questa categoria, ma Enza ha bisogno di analizzare la realtà e di prenderle le 'misure' senza soluzione di continuità, con uno
strumento che tutti probabilmente hanno, ma pochi sanno far
funzionare. Mi pare che i versi di 'Partenze', che si stemperano senza segni d'interpunzione e senza titoli, tranne che quelli di tre fondamentali paragrafi, siano l'esatta trasposizione in parole di questa condizione.