mercoledì 2 gennaio 2013

Daniel Arasse “L’ambizione di Vermeer” Einaudi, 2006



Se un libro si scaglia contro “l’estrema soggettività” e le “fantasticherie”, quando siano esse a determinare l’efficacia critica, sicuramente non è il libro di un censore, ma di colui che intende liberare il campo da tutte le incrostazioni e i fumi che ci impediscono una lettura della cosa in sé,  del quadro.  Daniel Arasse che nel suo L’ambizione di Vermeer, Einaudi, 2006, affronta l’opera d’arte con strumenti critici affilatissimi, leggendolo anche nel confronto con le opere coeve, liberandoci dalle strane leggende che aleggiano o addirittura s’incrostano sulle opere, distorcendone la fruizione: ad esempio, quella di Vermeer come “pittore minuzioso di scene il cui prestigio dipendeva dalla meticolosità "descrittiva" della loro resa”. Invece Vermeer dipinge sfumato, egli non trascrive quel che vede nella camera oscura e non delinea ciò che dipinge: “il contorno come il modellato interno delle figure sono tanto presenti quanto allusivi, evocati e invisibili” e fino al punto che la sua imprecisione sarebbe un elemento fondamentale della sua pittura.

La questione del mistero dei suoi quadri, se c’è, è inerente esclusivamente a “un intento dell’opera costruito dal pittore nel quadro, affinché questo eserciti il suo pieno effetto su colui che guarda”. Il pittore olandese esprime, infatti, una posizione ben precisa in relazione  a posizioni contemporanee artistiche e storiche: proprio esse costituiscono la base e il terreno su cui Daniel Arasse conduce le sue ricerche dimostrando che oggi egli non è più “quell’artista "per sempre sconosciuto" che ha affascinato Proust”.

Se la sua pittura è una pittura di genere, essa appartiene anche a una pittura interiore. Se nella pittura olandese del XVII secolo, la pratica del quadro nel quadro è usuale e indica un viraggio morale della scena principale, in Vermeer essa serve “alla costruzione interna della superficie a cui appartengono”.  Arasse procede nella sua analisi studiando i temi iconografici, il “materiale pittorico e mentale” utilizzati dal pittore e le modalità di utilizzo rispetto ai pittori coevi, dicevamo, poiché proprio le differenze individuate vanno a tracciare "il genio" di Vermeer. Il lavoro analitico di Arasse, sempre attento a non travalicare il dato oggettivo, mostra che “I veri documenti che permettono di analizzare i quadri di Vermeer sono quegli stessi quadri”.

La disamina si snoda prendendo in considerazione la reputazione raggiunta dal pittore già nella sua epoca, i rapporti con il denaro, con la religione, con la committenza e con la pittura come pratica che è ”prima di tutto, espressione d’un bisogno individuale, di investimento personale, intimo” e con la serie di elementi che contraddistinguono la sua attività pittorica. Pur usando, infatti, elementi condivisi anche da pittori suoi contemporanei, essi acquistano nella sua pittura una cifra semantica ben diversa: per esempio, "il quadro nel quadro" presente in ben diciotto quadri rispetto ai  trentaquattro, trentacinque dipinti a lui attribuiti, in cui la citazione dei quadri altrui appare sempre alterata, deformata, tagliata o inesatta, rendendo il senso veicolato di problematica lettura. Con l’aggravio del fatto che  “proponendosi di interpretare in maniera univoca un quadro il cui significato allegorico è volutamente incerto, l’approccio iconografico complica all’estremo le eventuali allusioni d’un quadro apparentemente semplice”. Si va così a configurare un sistema di allegoria personale su cui Arasse pone particolare attenzione: su questa disallegorazione della figura allegorica che passa per l’allegorazione del pittore e del suo atelier. Così come straordinaria è la sua lettura del significato della carte geografiche in Vermeer: carte che bisogna interpretare e che pertanto sono legate “all’istanza cognitiva che ne orienta la messa a punto e l’impiego”.

Il critico francese si spende in maniera magistrale nell’analisi specifica degli elementi pittorici precipui: il rapporto spazio-superficie, la figura e il luogo in cui è collocata,  l’uso della luce e degli specchi, lo sfumato, le ombre, il rapporto figura-sfondo ( che intrattiene un preciso rapporto con gli studi di Leonardo da Vinci): tutti elementi che indicano “che il quadro resiste  alla risoluzione visiva e concettuale. Fa da schermo a ogni visione nettamente distinta e non si lascia nemmeno ricondurre al registro dei contenuti; non si lascia piegare, trasformare in qualcosa d’altro da ciò che è, la superficie di colori che là appare  e che rappresenta qualcosa”. E niente di meglio da ricevere come approccio all’arte - in un libro che fa del rimando costante al quadro, mediante il suo eccellente  apparato iconografico, un punto ineludibile - per chi consideri che l’arte sia insostituibile e specifica.    

                                                                       Rosa Pierno

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