martedì 21 giugno 2016

Gianni Montieri "Avremo cura", editrice Zona, 2014




Il racconto delle minime cose, quelle quotidiane al limite dell'insignificanza, non  è mai  stato così prezioso proprio a causa del tono pacato, lieve e dolce  dell'autore: Gianni Montieri nel suo "Avremo cura", editrice Zona, 2014. La macchina percettiva che è in azione, non si saprebbe dire dove sia posizionata, non c'è un esterno pregnante rispetto a uno stato interiore, perché quello colora questo, perché questo assembla quello, in un'osmosi che se stempera i contorni, rafforza la fermezza dell'immagine, mettendo a fuoco il nucleo dell'insensatezza che il poeta denuncia.

Tuttavia, la felicità c'è sempre quando c'è lei, la donna amata,  e si riverbera sulle pareti della chiesa della Salute, sull'acqua "appena alta". La pienezza dell'amore. L'amore che sazia e che allontana non solo la morte, ma rende impossibile la sua stessa fine. Nessuna cosa può fotografarsi senza che lei sia riflessa dallo sguardo del poeta sulle superfici levigate delle cose. E dà una felicita l'amore, quando è sazio, che fa dimenticare anche che il mondo non è amore.

L'amore, pertanto, come condizione di serenità e di relativizzazione dello sciabordio a cui le cose dell'esistenza sono abbandonate, il quale è,  in ogni caso, un moto che non modifica l'ordine delle cose. Ma lo sguardo d'un uomo preso d'amore, nelle profondità intestine delle cose ritrova i luccichii e i riverberi, le superfici trasparenti, i limpidi moti di un'acqua stagna e l'oscuro fondo. Qualcosa consente la completa complanarità tra profondità e superficie ed è la sostanza stessa dell'amore: leggibile e illeggibile nel medesimo torno di tempo.

Questa sensazione di iridiscente malinconia che avvolge le cose, non solo quelle   più lontane,  indica che la difficoltà è sempre quella di mettere a segno l'inutilità della violenza, dell'aggressività, dello sfruttamento. L'esistenza d'un mondo crudele, e inutilmente crudele, ove forse anche il linguaggio ha un suo ruolo, dove la sua ricercata complessione, soprattutto in ambito poetico, si pone più come un inutile approdo che come un utile strumento.


Volevo scrivere una poesia innovativa
che fosse poco comprensibile, strana
per dire pioggia avrei messo un ratto
in un tubo e il tubo in un territorio
alieno, o in una marmitta sfondata
di uno sfasciacarrozze camorrista
e abusivo di Melito. Sulla pioggia
avrei detto nulla in venti versi
Asincronici, asimmetrici, asintomatici
per dire anima di un amico malato
non avrei menzionato ospedale
ma fabbriche abbandonate e nomi
come Gallarate, o automi d'acciaio
fusi nell'inceneritore di Figino.

Per chiusa una cabina telefonica
Sip, due gettoni uno che chiama
chissà dove e uno che non risponde.


"Salvo, già salvato, ancora da salvare" forse sono le sole posizioni mentali che possiamo attivare in un contesto  dove avere un ruolo attivo sembra impossibile: sorta di  diga contro l'oblio totale,  gli unici stati attraverso i quali possiamo definire la nostra condizione nel mondo, a peritura memoria di una peritura felicità. Ma, il poeta è anche testimone del valore salvifico del linguaggio: poiché "la sua mancanza che non racconto / che non dichiaro" è mancanza appuntata ancora con parole, nel narrare il dolore per la morte del nonno, in una poesia presente nella seconda sezione del libro, intitolata: "Sud) In caso di morte".

Abitudine ed evento violento, quiete e fatto nefasto, sono anche in qualche modo "misteri recitativi" poiché al non sense non si può controbattere che con una scenografia e una recita pomeridiana. Le parole sembrano avere anche il potere d'incastonare le persone in un'azione, come una moviola che ripeta all'infinito. Guardare una palla rotolare o un biliardo, azione dell'adolescenza, sarà per sempre sentire lo stesso, anche se ora si è diversi. In codesta clessidra, il tempo ha due sole stazioni, ma nessuna direzione.

Dicevamo che nella seconda sezione, la località geografica ha un nesso fortissimo con la morte, determinando atteggiamenti al limite dell'afasia.

XXVII

Un poco questa cosa me la porto appresso
il precipizio atavico, niente dietro l'angolo
anni, migliaia di metri di distanza concedono
un sereno mai definitivo, la certezza
di uno scampo temporaneo alla morte
una pausa, una presa in giro.


È come far collassare insieme un medesimo luogo in un medesimo tempo: " La sparatoria dietro l'angolo / la partita di calcetto, i compiti da fare, / poi uscire la sera il bar, la storia di tutti, / tutti tornavano per cena". L'assurdo si trova a condividere lo stesso luogo della quotidianità apparentemente più risolta e serena. In realtà, tale vicinanza svela la forza inabbattibile di una vita in cui non fare male all'altro è il principio che la rende salda, ben vissuta anche nella sua pochezza, e che contemporaneamente rende ancora più inutile e idiota l'atto che con violenza la dissacra.

XVII

C'era poi un disegno del morire
sui volti degli uomini seduti
davanti ai bar a guardare
passare, sollevare l'occhio
indicare all'altro e criticare
stando fermi, non cambiando
(che fosse scopa o tressette)
mai la maniera di giocare.

Dunque, una critica, quella di Gianni Montieri,  che non fermandosi al dettato della presenza epicurea, la quale impregna i panni della cultura del Sud Italia, rivolge un appello, richiama una diversa prospettiva, indicante lo strenuo desiderio di una svolta nel fisso proscenio,  e la invoca con la placida posa del giusto.

                                                                                               Rosa Pierno

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