martedì 28 febbraio 2017

Le sculture di Anne-France Aguet






La forma si muove come un arto, con una torsione appena accennata, un movimento che della carne mostra l'aspetto più diaccio.

La piega fa accortamente scivolare l’ombra lungo le pareti per raccoglierla. Poi sembra ruotare, come un meccanismo perenne, eppure è solo la luce a slittare sui bordi.

Forme suadenti e sfuggenti, con la trama delle marmoree venature adescanti l’occhio. Al tocco, è certo, si modificherebbero.

La curva scivola all'indietro, ove lo sguardo non può giungere. È una figura che aggrappa altri spazi, luoghi impervi, ove l’occhio che cerca cade in un abisso luminoso.

Su tali selle, lo spazio viene disarcionato, mentre una tinta perlacea si deposita nelle calcaree pozze.

Le curve hanno l’ambiguità dettata dalla variazione del raggio. Trasla insieme a esso ogni ragionevole possibilità di comprendere, poiché il concavo s'insinua nel convesso.

Par che cavando materia ai volumi si porti alla luce il bianco assoluto del marmo di Carrara. Essi si lasciano avvolgere dal candore gocciando ombra lungo i fianchi.

È una forma che prima non esisteva. È l’abaco delle possibilità a cui un oggetto curvo  può dar luogo, portando a scomparsa il mondo precedente.

Da un’altra angolazione, la forma sospesa sul piedistallo, non la si potrebbe riconoscere: non si hanno punti di riferimento. Il concavo si estroflette verso l'alto e il convesso si adagia senza trovare sostegno.

Nessun punto è uguale a un altro, nessuna regolarità si riscontra nel corpo: le forme tratte da una geometria organica sono fisiche concrezioni della mente.

Il dialogo è del tutto apparente, le due figure sono simili, eppure non confrontabili. Dello spazio saggiano la resistenza, si depositano come sacche di liquido, si espandono col ritmo del respiro, si contraggono se lo sguardo le circuisce.

Le curve si ripetono in un moto colloidale che sempre conserva la forma originaria: la prima curva.

Vorrebbero penetrare nelle zone contigue occupate da altri corpi, solo il nero della base impedisce il loro inabissarsi.

Forme che fanno della contiguità un paradosso. Staccatesi l’una dall’altra come per divisione cellulare, in nessun punto conservano uguale comportamento.

Persino la linea della disgiunzione è cancellata dalla malleabilità della materia lapidea, la quale finge una vaporosa consistenza. Su questa curva scivolando, ci si  ritrova nell’aere spinti.

Il nastro si torce fino a invertire direzione, imprimendo ai sensi un cambio repentino che la mente asseconda con difficoltà.

Persino se in forma di nastro, l’opera non giace mai sul piano, ma rende lo spazio un ammasso di pieghe, volute, corridoi e piste. Spazio esiste realmente solo se intercettato.

Il colore, il rosso di Arzo, conferisce allo spazio la preziosità di una materia che non gli apparterrà mai.

Eliminando tutte le linee rette si ottiene un corpo che si muove sotto una lapidea veste. Vestale di inusitati altari.

Lo spazio viene compresso, stipato e risospinto, respira e si muove solo grazie alle sagome.

Le concrezioni in “macchia vecchia”, coi loro grigi a zolle, captano la luce in modo difforme pur  agendo lungo una medesima linea di flessione.

Le tondeggianti macule possono ingrandirsi, modificando la curva della struttura. Nemmeno è credibile che restino ferme, quando non osservate, né che cessino di muoversi con la medesima forza.

È da credere che la materia compia le sue rotazioni in maniera impercettibile all'occhio. Che si possano vedere soltanto aderendo totalmente alla superficie, azzerando qualsiasi distanza tra l'osservatore e la massa venata.

La loro stasi è legata alla prima percezione, poi lentamente si muovono, i pori si aprono, le membra si sollevano. Marmo è materia vivente.

Mai esse producono vuoto. Spazio è prodotto dal movimento locale, dal moto della pietra. Forme rendono pieno il mondo.

Luce e spazio, per le opere, sono il mito da sfatare.


                                                                                        Rosa Pierno




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