lunedì 13 novembre 2017

Luigi Trucillo “Altre amorose” Quodlibet, 2017







Che cosa offre un corpo alle lettere, quel corpo che è oggetto d’amore? “Una sostanza flessibile e schiva” che Luigi Trucillo, autore di “Altre amorose” Quodlibet, 2017, secerne e accumula e che spera di conservare al di là della finitezza dei corpi, se non dell’amore. Ma l’amore stesso sembra costantemente condividere il suo essere con la possibilità di essere altrimenti. Se non fosse stato l’amore vissuto, quello da cui ci si sente inseparabili, sarebbe stato l’altro amore: quello non detto o quello potenziale, quasi come se nell’apertura si potesse trovare il diverso, l’opposto, altri legittimi amori, e solo attraverso essa si potesse individuare la specificità di quell’unica e sola passione. E il finito si potesse accordare in tal modo con l’universo in espansione.

Ogni percezione - e abbiamo già visto in precedenti note quanto Trucillo sia poeta della percezioni, di quelle talmente distratte e veloci che sembrerebbero essere destinate a non nominarsi nemmeno, e che invece trovano nella sua voce poetica una residenza del tutto stabile - ogni percezione, dicevamo, persino quella che allontana, quasi una disgressione, o che trascina con sé cose spurie, agganciandosi a modi sommersi, inconsapevoli o scartati, è legata a doppio filo a ciò che è infisso nella mente. 

Forse l’amore diventa, in questo dialogo tra immanenza e assoluto, tra finito e infinito,  tra perdita e acquisto, un atto che salva, solo alla fine di un viaggio mentale,  nuovamente riconducendo a sé. Cercare nelle proprie cellule le ragioni della scelta e dell’unione non può darsi se non in un dialogo serrato con tutto ciò che sembra esulare, che sembra inafferrabile. L’amore, soltanto allora, pare in grado di poter far stringere qualche cosa fra le mani: l’universo intero.

Gli sguardi

Ne ho perduti tanti
che quelli che ho raccolto
sembravano sempre unici
e migranti.
Da giovane credevo che mi avrebbero trovato
senza cercarmi,
e da vecchio lo stesso,
ma in modo più segreto,
perché il cinismo accresce la miopia,
e la saggezza succhia il suo midollo
dall’osso dell’enigma.
Parlo del mio cinismo,
perché negli occhi delle donne che si accendono
il tempo non ha fretta,
e benché un poco incerto
modella la forma degli sguardi
con una macchia misteriosa.

La sfumatura

Se sapessi da quale lembo del cielo
l’uomo e la donna scrosciano insieme
immaginerei un tetto di bambù e un capanno
che si specchiano in uno stagno verde-ardesia
tremando per  l’indistinzione.
E una rete bucata
intessuta con le piume dei passeri
con cui afferrare quella sfumatura.


In una coppia

In una coppia
si scoprono al mattino tracce di lepri
e orsi, 
e quando si spegne il canto dell’allodola
i cacciatori stanano la preda
accovacciata 

nel bosco fitto della devozione.

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