mercoledì 31 gennaio 2018

Maria Gabriela Llansol “Il gioco della libertà dell’anima. Lo spazio edenico” Pagine d’Arte, 2010




Un corto circuito tra musica, lettura, sesso, scrittura. A volte si accende la luce, che illumina un singolo soggetto sulla scena: “- io - che osservo il possente e mobile uomo nudo della matematica musicale di quelle equazioni e abissi”. Immanente e trascendente, messi a contatto in modo sulfureo, emanano ossidi, odori, cose spurie, non collocabili in nessun tipo di ordine. Oggetti inaccordabili, d’altra parte, quale tipo di armonia potrebbero produrre? Eppure si scambiano caratteristiche, qualità, posizioni: “la scrittura che la musica celebra non ha macchia di rumore”. Non una metamorfosi, né operazione alchemica. Certamente collage, accostamenti forzati che non perdono lo stridio, anche dopo pagine e pagine, trascinando con irruenza la sintassi.

La scrittura di Maria Gabriela Llansol non si svolge sul solo piano linguistico, anche se esso è messo fortemente in tensione, risuonando in tutte le sue gamme più dissonanti, poiché la tensione nasce primariamente nella realtà percepita, fra gli oggetti e gli elementi. Un sesso diventa una tazza, non con un investimento simbolico, ma con una sostituzione figurale, sinonimica o funzionale. Viene in mente che quello che si può fare con un sesso lo si possa fare proprio perché somiglia a una tazza e viceversa. Non una cosa che stia per l’altra rendendo tutto equivalente, ma un mondo ridisegnato nelle sue funzioni, rifondato.

Tuttavia, non c’è nessuna comunicazione tra le arti. Pur se la musica trapassa nel testo, esse comunque non possono condividere alcunché, anzi la loro presunta comunicabilità “non sarebbe che una melanconica constatazione della notte”. Nessuna oscurità, nessun enigma alligna nel testo concretissimo. È appunto una constatazione. Allo stesso tempo, “il corpo è materialmente frasi / che materiale e letterale non hanno differenze” e per comprendere questo passaggio è necessario far saltare la logica, poiché basta l’anima a rimettere in ordine le cose e senz’altro allora l’ordine sarà diverso anche da se stesso.

In codesta maniera, “l’invisibile quando si fa sensuale, apre al linguaggio sentieri che il racconto ha ostruito col coperchio del pianoforte, i bassi muri del reale, le tenui pareti della vita”. Comprendiamo, condotti come per mano dalla scrittrice portoghese, che la realtà, come il piano astratto, non è  più quello normalmente esperito. È necessario un esercizio alla visione, una metodica trasposizione di piani, uno scambio costante, un’osmosi iniziata e continuamente interrotta. Un metodo che la scrittura mostra in maniera lampante. In questo modo “il testo apprende la materialità dello spazio attraverso cui scorre”.

Anche le cose hanno gli occhi, hanno il nostro sguardo come orizzonte. Lo sguardo è una modalità di accordo con le cose, ed è sempre attraverso lo sguardo che le colline divengono un vassoio. Naturalmente, se le colline sono vassoio, anche il testo è uguale al testo. Forse, la scrittura diviene qualcosa di cui potersi appropriare, di fisico, dacché era mentale e viceversa. “Un florilegio di attributi, direbbe Spinoza”, a cui ogni cosa può attingere. Accade che qualcosa dematerializza la sostanza e materializza lo spirito. È il testo che può ricostruire giorni perduti, “ossa disseccate”. Resurrezione dei corpi è scrivere. Non che la scrittura attui il gioco delle coincidenze, delle rimembranze, dell’inizio e della fine, ma sono lo scrivente e il leggente a giocare “con la cosa del testo”. E, con il testo della Llansol, noi lettori veniamo meravigliosamente giocati, o meglio rimessi in gioco. 

                                                                              Rosa Pierno

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