mercoledì 7 marzo 2018

Vincenzo Mascolo “Q. e l’allodola”, Mursia, 2018


Se l’oggetto è la poesia, il testo non può che svolgersi avendo per oggetto i libri altrui e un costante dialogo con  la commedia di Dante, che l’uso della personale terzina di Mascolo nella sua ultima raccolta poetica di profondissimo spessore, Q. e l’allodola, Mursia, 2018, fa sorgere ad ogni verso. Esiste un percorso specifico che non si può evitare di seguire, quando poesia si segua, ed è un percorso che deve essere affrontato per poter giungere a vedere la luce in fondo al tunnel: il Virgilio incaricato è Queneau, quel suo meraviglioso libro di esercizi che non cessa di meravigliare con la sua rete di significati che variano al variare dei significanti: quasi lo sviluppo di una funzione a partire da variabili ogni volta diverse, ma che pur tuttavia non può essere dirimente per le  questioni poste da Mascolo.

Lo stile è parte in causa. Non si può deporre lo stile con la pretesa di una espressività pura, sorgente, che nasca già perfettamente compiuta. Ma quando lo si accetti, si aprono tempi cupi, ci si ritrova su una scena di incipienti sventure bibliche. Al posto delle cavallette, sciami di probabili forme consigliate dall’onda critica del momento. Al posto delle ragioni personali o collettive, l’invasione delle rane che col loro gracidare invocano la priorità come fossero le uniche aventi diritto alla parola. Le tenebre, poi, si accalcherebbero di certo per affermare che la poesia ha uno scopo, che deve resistere contro tutto, che deve lottare per un obiettivo. Mascolo, tra versi e prosa poetica, delinea il campo assordante delle pretese e delle aspettative, le quali rendono la contemporaneità una sorta di Moloch a cui sacrificare il proprio impulso o le proprie scelte. Il problema resta non il modo di versificare, ma il manifestarsi stesso della poesia. Scegliendo il proprio campo d’azione, il poeta dovrebbe poter poetare senza diktat e il suo testo essere sottoposto al solo vaglio del risultato: proprio quello che sembra mancare oggi. Poesia come arte dovrebbe potersi riconoscere solo nell’istanza della coscienza.

Delineare il profilo del problema, l’orizzonte rispetto al quale la poesia si trova a essere tirata da una parte e dall’altra, non è operazione di poco conto. C’è una agguerritissima schiera di tiratori scelti che spergiurano di sapere ciò che la poesia dovrebbe essere. Invece, Mascolo con limpido sguardo, invoca per essa la libertà da patrie e griglie. La necessità di liberarsi da quelle pastoie che finiscono con il depositare un velo, per cogliere alfine nuovamente, quasi fosse una nuova prospettiva, il dono della poesia. Dono che non può ottenersi senza l’esercizio dello stile  dello studio della tradizione, che è il tesoro delle forme dei poeti che ci hanno preceduto. Non si dovrebbe scavare nella propria esistenza, senza avere affilato gli strumenti dello stile, ma nemmeno considerare coincidente la poesia con la questione stilistica.  Quasi domande retoriche risulterebbero allora quelle relative alla funzione, all’uso della poesia.

“Queneau, non è delimitata la poesia, non ha finalità né appartenenza. Accade // per fatto naturale, come un frutto di stagione, talvolta ci sorprende come un temporale estivo che scuote anche le zolle e libera l’odore”

Tuttavia, non è nemmeno questo risalire dagli accadimenti sensibili a risvegliare la memoria: “non è soltanto tutta // la bellezza che ci sorprende e che ci meraviglia, non è nemmeno questo solamente la cosa che chiamiamo la poesia”.

Non dunque solo stile, non solo dato esistenziale, non solo bellezza, la poesia per Mascolo attinge a fonti di ben altra natura, di metafisica portanza. Certo, il coinvolgimento della sfera mentale, dell’astratto, coinvolge il limitato nostro essere, finitezza e morte. La propria posizione, all’interno o meno di un disegno, non appare poco problematica e la presenza della poesia deve trovare necessariamente una corrispondenza per potersi porre come necessaria. Deve esserci una risposta alla nostra ossessione di scrivere:

“prima o dopo trascineranno via i poeti, per natura incapaci di resistere al vizio capitale della parola vana e per questo condannati a perdersi in eterno, destinati a dannazione imperitura, se sia un evento magico o solo un resoconto del nostro quotidiano”.

Se l’anima è “ridotta a un segno di scrittura”, la necessità di scrivere non può ad ogni modo essere stornata affermando la sua inutilità. Essa infatti sembra rispondere e restituirci la realtà e il suo oltre, il disegno della bellezza a la sua pace. Quasi una raggiunta boa, la capacità di superare tutte le false questioni che la incrostano  e che raggelano l’andatura del poeta. “Al centro della mia vita binaria”, superata la palude oscura di una poesia prigioniera, ove:

Le forme sono pasto luculliano
per loro che confondono nei versi 
poesia e tocco della mano.

Ma la realtà ha canoni diversi
comprende l’invisibile il reale
e la palude dentro cui mi persi

Se il poeta si chiede: “Dov’è il silenzio, dove la parola / che riproduce il suono della vita / qual è la corda giusta della viola” comprende di potersi aiutare con la leggerezza, ma anche con la consapevolezza che “non si può colmare la distanza / sperando di raggiungere la meta / immobili nel chiuso della stanza”. Per una ragguardevole inversione invoca quell’apertura alla natura che nello svolgimento delle due sezioni del libro aveva negato, proprio per aver voluto cercare il segreto della scaturigine poetica soltanto nelle forme.
Il buon esito di una riacquisita leggerezza può riuscire esclusivamente se assistita non da una ragione che aridamente cerca solo in sé:

(Poesia che nella mente mi ragiona
e che alla mia ragione si conforma
vorrei lei fosse Amore che sragiona
che scuote vibra squassa e che trasforma)

La necessità che la poesia travolga il sé profondo, che sia esperienza di vita che avvicini all’uno, facendolo sentire parte del mondo, particella e universo, “vibrazione che risuoni” col creato, che sia cioè quell’unico sentire in grado di forgiare e di trasformare rendendo inique e biliose tutte le mere questioni che non abbiano a che vedere con questa verità, è per Vincenzo Mascolo la poesia-salvezza, l’unica che abbia un senso. Persino la ricerca della bellezza diventa una chimera se non ci si approssima alla verità del proprio cuore, a quel canto che è la purezza sorgiva dell’origine.


                                                                              Rosa Pierno


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